All’alba, nell’ora della preghiera del mattino, Samira Sabzian è stata impiccata.
La sua vita è finita così, appesa ad un cappio, dopo essere stata una sposa bambina, costretta ad unirsi in matrimonio a soli 15 anni con un uomo molto più grande di lei, che l’ha sottoposta a continue violenze e infiniti abusi.
Samira è stata condannata a morte per aver ucciso a 19 anni l’uomo di cui era vittima e schiava.
Poche ore prima dell’esecuzione alla donna è stato concesso ciò che le era stato negato nei 10 anni di carcere: vedere i suoi due figli.
Poi la sentenza è stata eseguita: condanna a morte, come deciso dalla famiglia del defunto marito. Anche da morto l’aguzzino è riuscito ad infliggere alla moglie l’ultima estrema violenza, con la complicità di uno stato misogino che solo nel 2023 ha mandato a morte 18 donne.
Quel cappio che ieri ha spezzato la vita di Samira per mano del boia pende minaccioso sul capo di ogni donna dell’Iran che prova a ribellarsi alle violenze subite. Senza alcuna via d’uscita che non sia la morte.
Samira è solo l’ultima vittima. È stata uccisa dalla legge di uno stato che solo nel 2023 ha eseguito 800 condanne a morte. Uno stato che, senza alcuna logica e vergogna, presiede la commissione sui Diritti Umani dell’ONU.